La cattura dell'eroe della Rivoluzione Partenopea Caracciolo nel Palazzo Ducale di Calvizzano: altra preziosa chicca di storia locale inviataci in esclusiva dal professor Luigi Trinchillo
“Gli uomini conoscono il presente,
gli dei sanno il futuro,
unici e assoluti detentori di ogni luce.
Ma dal futuro i sapienti colgono
ciò che si approssima. Il loro udito
talora s’allerta d’improvviso nei momenti
d’intenso studio. A loro giungono
le misteriose voci degli eventi che si approssimano.
E devotamente le ascoltano. Fuori, per le vie,
la turba non riesce a sentire nulla”.[1]
L’ammiraglio Francesco Caracciolo nacque a Napoli il 18 gennaio 1752 e morì nella stessa città il 29 giugno 1799, anno della effimera Rivoluzione Partenopea antiborbonica, conclusasi tragicamente, con la repressione e l’eliminazione di tutti i principali attori di essa.
L’Ammiraglio, appartenente ad una famiglia napoletana di antica nobiltà, comandava il contingente borbonico meridionale inviato a Tolone nel 1793 a combattere insieme con la flotta britannica, e si fece onore. Distintosi anche in altre operazioni belliche, dopo la fuga del re Ferdinando IV di Borbone, rifugiatosi in Sicilia allo scoppio dei disordini nella città di Napoli, aderì alla Rivoluzione giacobina, animata dai forti ideali libertari portati avanti dagli Illuministi. Ammirato e rispettato dal gruppo dei rivoltosi, fu nominato, nel 1799, Ministro della Marina, durante la breve esperienza della Repubblica Partenopea. Alla caduta di essa, per ordine dell’ammiraglio inglese Orazio Nelson, tutti i protagonisti di quella “rivoluzione passiva” (come ebbe a definirla Vincenzo Cuoco nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”) subirono conseguenze terribili, perché la repressione anglo-borbonica fu immediata, violenta e senza quartiere. Tutti i suoi personaggi più importanti di essa, segnalatisi per l’impegno pubblico oppure denunciati da spie onnipresenti della polizia borbonica, furono arrestati, sommariamente processati e passati per le armi. Francesco Caracciolo comprese subito di essere nel mirino delle forze della repressione, per il ruolo svolto, per cui tentò di sfuggire alla cattura, probabilmente nell’intento di raggiungere l’estero, per cercarvi riparo da esule. In attesa della messa in atto del progetto, si rifugiò a Calvizzano, un piccolo centro dell’hinterland napoletano, dove aveva dei conoscenti e una parentela indiretta con il “Signore” locale, e, probabilmente, una piccola proprietà terriera; inoltre, conosceva alcuni abitanti, ai quali chiedere ospitalità. Nell’immediato, trovò facile e cordiale accoglienza, ma la tradizione popolare lo volle tradito dal suo stesso ospite o da un suo servo. La leggenda circondò di un’aura olografica l’evento, immortalato da una tela di Raffaello Tancredi, che lo vede catturato presso il locale Palazzo ducale[2], situato di fronte all’attuale Casa Comunale del Paese[3]. Processato per direttissima e condannato a morte per alto tradimento, in quanto ufficiale di grado superiore, e senza possibilità di appello, probabilmente anche per dare una “lezione” esemplare che scoraggiasse ulteriori rivolte o insurrezioni, l’Ammiraglio Caracciolo chiese inutilmente di poter subire l’esecuzione con la dignità di militare qual era. Invece, per espresso ordine di Nelson, fu impiccato all’albero di trinchetto della fregata Minerva e il suo cadavere lasciato alle onde del Tirreno, laddove il suo estremo desiderio era stato quello che il suo feretro potesse ricevere una dignitosa sepoltura religiosa[4]. Caso volle che, nei giorni successivi, delle reti di pescatori s’impigliasse qualcosa di pesante che, una volta issato sulla barca e trasportato a riva, si rivelò essere il cadavere dell’Ammiraglio, che, ricomposto in tutta fretta, fu sepolto nella Chiesa di Santa Maria della Catena, a Santa Lucia.
All’indomani della realizzazione dell’Unità d’Italia, l’ammiraglio Francesco Caracciolo fu considerato uno dei primi patrioti caduti sul lungo percorso storico del nostro Risorgimento nazionale[5].
È stato più sopra fatto cenno al severo giudizio espresso sulla Rivoluzione del 1799, che interessò non solo la città e il Regno di Napoli e il Meridione, ma numerosi altri Stati regionali della nostra Penisola, negli anni conclusivi del XVIII secolo. Effimera durata ebbe soprattutto la Repubblica Partenopea, per taluni errori connaturati con il suo stesso svolgimento, come fu sostenuto, quasi subito, in un lucido testo scritto da uno dei partecipanti più impegnati nel trasferimento in Italia dell’esperienza politica rivoluzionaria d’Oltralpe: Vincenzo Cuoco. Questi fu partecipe e testimone diretto degli eventi, quindi, attraverso le sue parole, possiamo metterne bene a fuoco particolarità e limiti.
Ecco un breve estratto di quel suo acuto “Saggio storico sulla rivoluzione partenopea del 1799”, che può aiutarci a comprendere meglio non solo le circostanze che portarono l’Ammiraglio Francesco Caracciolo ad opporsi al Regno borbonico, ma anche al fallimento del tentativo di rinnovamento politico del Sud.
“… Io forse non faccio che pascermi di dolci illusioni. Ma, se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un’autorità, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato dei beni reali e liberato lo avesse da quei mali che soffriva; forse allora il popolo, non allarmato all’aspetto di novità contro delle quali avea inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee e i suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse, … chi sa? …noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata e degna di una sorte migliore.
[…] L’armata francese entrò in Napoli a’ 22 gennaio. La prima cura di Championnet fu quella d’installare un governo provvisorio, il quale, nel tempo stesso che provvedeva ai bisogni momentanei della nazione, doveva preparar la costituzione permanente dello Stato.
Ma immaginare un progetto di costituzione repubblicana non è lo stesso che fondare una repubblica. In un governo in cui la volontà pubblica, o sia la legge, non ha e non dee avere altro sostegno, altro garante, altro esecutore che la volontà privata, non si stabilisce la libertà, se non formando uomini liberi. Prima d’innalzare sul territorio napoletano l’edificio della libertà, vi erano, nelle antiche costituzioni, negl’invecchiati costumi e pregiudizi negl’interessi attuali degli abitanti, mille ostacoli, che conveniva conoscere, che era necessario rimuovere. Ferdinando guardava bieco la nostra nascente libertà e da Palermo moveva tutte le macchine per riacquistare il regno perduto. Egli aveva de’ potenti alleati, i quali erano per noi nemici terribili, specialmente gl’inglesi, padroni del mare e, in conseguenza, del commercio di Sicilia e di Puglia, senza di cui una capitale immensa, qual è Napoli, non potea che difficilmente sussistere.
[…] Avea il re nel Regno stesso non pochi partigiani, i quali amavano l’antico governo in preferenza del nuovo; ed in qual rivoluzione non si trovano tali uomini? Vi erano molte popolazioni in aperta controrivoluzione, perché non ancora avean deposto quelle armi che avean prese, invitate e spinte da’ proclami del re; altre pronte a prenderle, tostoché, rinvenute una volta dallo stupore che loro ispirava una conquista sì rapida ed accorte della debolezza della forza francese, avessero ritrovato un intrigante per capo ed un’ingiustizia, anche apparente, del nuovo governo per pretesto di una sollevazione.
[…] La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurre a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra cultura ne’ tempi del re, quell’istessa formò nel principio della nostra repubblica, il più grande ostacolo allo stabilimento della libertà. La nazione napoletana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltà. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Così la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile e che non intendeva”.[6]
Negli anni della sfolgorante vittoria delle truppe francesi e napoleoniche nel Nord dell’Italia, anche nel Centro e nel Meridione della Penisola si erano avuti consistenti movimenti rivoluzionari, in gran parte autonomi rispetto agli eventi d’Oltralpe. Infatti, a Roma, a Napoli ed in altre realtà regionali, le idee rivoluzionarie si erano diffuse fortemente; purtroppo, però, quasi esclusivamente fra gli intellettuali, le persone istruite ed i ceti borghesi più aperti alle innovazioni: quelli che, con sprezzante sarcasmo, il grande Vittorio Alfieri ebbe a definire “infranciosati”[7]. Il fascino della nuova cultura degli Illuministi, la prospettiva di una maggiore partecipazione alla vita socio-politico-economica delle proprie realtà locali, la possibilità che i governanti fossero scelti, oltre che “Per grazia di Dio” anche “Per volontà del popolo”, un’apertura di idee che lasciava sperare in una visione di confini (anche psicologici) meno angusti di quelli locali, furono le “molle” che animarono la Rivoluzione, specialmente a Napoli, così da consentire la proclamazione della “Repubblica Partenopea”, nel 1799. Le forze dell’innovazione, che si ispiravano sostanzialmente alle stesse motivazioni della Rivoluzione Francese, guidate da una parte dello stesso gruppo dirigente del Regno, riuscirono ad instaurare una forma politica repubblicana nella nostra Città, costringendo il sovrano a rifugiarsi in Sicilia, sotto la protezione della flotta inglese, agli ordini dell’Ammiraglio Orazio Nelson. Al momento della reazione austriaca, tuttavia, mentre Napoleone Bonaparte era impegnato in Egitto e i Francesi nel Nord, le forze cattoliche e reazionarie filoborboniche ebbero facile gioco a fare breccia fra i ceti meno acculturati e più arretrati meridionali, tanto da prendere nuovamente il sopravvento e consentire al re Ferdinando IV di Borbone di rientrare a Napoli e riacquistare il controllo del territorio. La reazione fu spietata: 120 persone vennero condannate a morte, tra loro, tutti gli uomini di punta della vita civile e culturale del Regno. I più fortunati riuscirono ad allontanarsi in tempo, emigrando all’estero. La popolazione, che era fortemente legata alla Chiesa cattolica e alle tradizioni, non solo non guardò con simpatia il tentativo insurrezionale, ma addirittura si schierò apertamente dalla parte dei “controrivoluzionari” e delle forze monarchico-repressive. Ecco allora spiegato il facile e rapido successo delle armate austriache e reazionarie, che riportarono i Borbone del ramo partenopeo a rientrare a Napoli, dove sarebbero rimasti fino al 1860, l’anno della Spedizione dei Mille, svoltasi in un differente contesto storico locale, nazionale ed europeo. La più lucida ed attenta riflessione sui limiti di quella Rivoluzione, tale da poter assurgere ad una specie di teoria adattabile ad altri futuri tentativi di insurrezione che possano aspirare al successo, venne proposta, negli anni immediatamente successivi, da uno degli intellettuali coinvolti direttamente negli eventi napoletani antiborbonici, cioè Vincenzo Cuoco: il suo “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799” rimane, ancora ai nostri giorni, un insuperato lavoro di analisi sociale, politica e militare. Com’è stato riferito esplicitamente nell’estratto riportato in questa breve relazione, a giudizio di Cuoco, una “rivoluzione” non può essere imposta al popolo dall’alto, che la subisca passivamente, se non la si vuole condannare al fallimento fin dall’inizio, perché, se le masse popolari la osteggiano o non ne comprendono le motivazioni, non esiste ceto intellettuale, per quanto “illuminato” possa essere, che le permetta e le consenta di affermarsi.
Il ritornello di una canzone popolare in voga all’epoca degli eventi napoletani, a mio giudizio, può esprimere meglio di qualsivoglia lungo discorso la misura del cupo e feroce risentimento della gente comune contro il tentativo repubblicano.
Eccolo riportato nel vernacolo originario:
“A lu suono de la gran cascia
viva sempre lu populo bascio!
A lu suono de le campane
viva viva li populane!
A lu suono de li violini
sempre morte a li Giacobini”.
In realtà, i luoghi dove l’insurrezione popolare e la restaurazione regia ebbero i caratteri più drammatici furono proprio quelli governati dalla Repubblica Partenopea. Infatti, ai primi del mese di maggio 1799, a difendere la debole istituzione repubblicana napoletana non erano rimasti che pochi presìdi francesi ed il governo cittadino si trovò a dover gestire la situazione con le sue modeste forze locali.
Il Cardinale Ruffo di Bagnara, vicario del re Ferdinando IV di Borbone, partendo dalla Calabria, con l’aiuto di bande di “guerriglieri” sanfedisti e di spie disseminate un po’ dappertutto, poté proseguire indisturbato la sua marcia per la riconquista del Regno. Inutilmente il governo repubblicano provò a resistere con le forze disponibili. In una situazione sempre più caotica e difficile da governare, il Cardinale assunse un’iniziativa per la pacificazione, che i responsabili della Repubblica non si sentirono di rifiutare. L’accordo prevedeva un salvacondotto per tutti coloro che avessero voluto allontanarsi, per imbarcarsi e raggiungere Tolone; inoltre, era garantito che anche coloro che fossero rimasti a Napoli avrebbero avuto salva la vita e non sarebbero stati ulteriormente perseguitati.
L’accordo fu sottoscritto il 23 giugno 1799 dal Cardinale Ruffo e dai capi dei rivoltosi. Il giorno successivo, 24 giugno, tuttavia, al suo sbarco a Napoli, l’Ammiraglio inglese Orazio Nelson non ritenne valida la convenzione di resa e la disconobbe, sostenendo di interpretare, così, il volere del re Ferdinando IV. Il Cardinale tentò in ogni modo di far comprendere agli inglesi che l’intento sottostante al suo atto di clemenza andava letto come un tentativo di non scavare un solco ancora più profondo fra la monarchia borbonica e una parte importante dei sudditi: quella costituita, soprattutto, dagli intellettuali e dai cittadini più acculturati. Nelson, purtroppo, fu irremovibile ed accettò solo di concedere ai francesi presenti a Napoli di allontanarsi secondo gli accordi, mentre i repubblicani locali furono cercati ad uno ad uno, imprigionati e condannati a morte in massa. Si contarono a centinaia coloro che furono arrestati ed inviati al carcere duro. 120 fra loro, i più esposti, furono impiccati pubblicamente, per servire quale monito e scoraggiare qualsiasi futuro tentativo insurrezionale. Subirono tale sorte i più bei nomi dell’intellighenzia e dell’aristocrazia meridionale dell’epoca. Fra loro, basterà citare Eleonora Pimentel Fonseca[8], Mario Pagano, Domenico Cirillo, Ignazio Ciaia, Francesco Conforti, Ettore Carafa, Gabriele Manthonè, Giuseppe Logoteta, … Una strage di “cervelli” di prim’ordine, che avrebbero potuto avviare quel risanamento della condizione socio-politico-culturale del Meridione e, forse, dare una svolta differente a quella Rivoluzione Nazionale che, pochi decenni dopo, avrebbe portato il Sud ad essere “inglobato” in un Regno Unitario, sotto la dinastia Sabauda, che, invece, non seppe o non volle valorizzare adeguatamente il nostro Meridione. Alcuni storici, d’altra parte, fanno risalire la cosiddetta “Questione Meridionale” (mai del tutto risolta nemmeno ai nostri giorni!), anche agli eventi partenopei degli anni conclusivi del fine secolo XVIII.
Il Cardinale Ruffo, pur non essendo un “raffinato politico”[9], aveva intuito che occorreva una profonda riconciliazione fra la monarchia e una parte importante dei sudditi, rappacificazione che sarebbe potuta tornare utile ai Borbone di Napoli. La repressione voluta, invece, dagli inglesi e, soprattutto, da Orazio Nelson in persona, fu sistematica e spietata e cancellò quei germi di innovazione che erano ormai ineludibili[10]. Ecco perché, almeno da allora in poi, l’aggettivo “borbonico” viene connotato negativamente nella mentalità comune e dei non-specialisti delle vicende storiche, trascurando, così, il fatto che fu questa Casata che realizzò, in molti campi, delle innovazioni e delle riforme che resero Napoli (e il territorio del Regno Meridionale) veri punti di riferimento in Europa dell’Arte, della Cultura e di talune intuizioni lungimiranti, che altri avrebbero “copiato”, imitato ed introdotto in seguito in Italia e nel Continente.
Calvizzano 20 febbraio 2022
Luigi Trinchillo
[1] Costantinos Kavafis (1863-1933), poeta di origine greca, poi trasferitosi con i genitori in Inghilterra. Il suo animo ellenico si manifestò non solo nell’adozione della lingua neogreca, ma anche nel recupero di tradizioni e miti del suo popolo. I versi qui ripresi sono tratti dalla raccolta “44 Poesie” pubblicata in Italia dalla RCS nel 1997, per la Collana “I grandi Classici della poesia”, con traduzione e curatela di Tino Sangiglio, a pagina 17.
[2] Questo palazzo, risalente agli anni compresi fra la fine del Seicento e i primi del Settecento, fu fatto costruire dal Duca Don Diego Pescara. Scomparso quest’ultimo nel 1691, sua moglie, quale tutrice del figlio Giovanni, resse fino al 1696 il feudo, del quale Calvizzano faceva parte. Giovanni Pescara rimase signore del paese fino al 1738. La moglie fu Donna Lucrezia Reggio Branciforte, che faceva parte della corte personale della regina Amalia di Sassonia. Alla memoria del figlio Antonio, deceduto a soli 29 anni, volle dedicare la lapide in marmo, ancora oggi perfettamente leggibile, posta all’ingresso della Chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Grazie, sul lato sinistro, entrando. Dal 1738 al 1796 Calvizzano appartenne al Duca Don Giovanni Battista Pescara, al quale si deve la fondazione e il finanziamento del Ritiro dell’Addolorata e San Francesco Saverio, istituzione che, da allora, è stata sempre cara ai cittadini del paese, che l’hanno sostenuta ed aiutata fino a qualche anno fa, quando si rese necessaria l’esecuzione di lavori radicali, che hanno portato alla chiusura (si spera, temporanea) dell’intero complesso e al trasferimento a Casoria delle poche Suore Catechiste rimaste, per la forte riduzione delle vocazioni femminili, anche locali, che avevano, fino a pochi anni fa, arricchito il piccolo convento. Dopo Don Giovanni Battista Pescara, scomparso nel 1796, il feudo di Calvizzano passò al figlio, il Duca Don Giuseppe Maria, che lo governò fino al 1806, quando i privilegi feudali furono aboliti nel Regno di Napoli da una legge della monarchia borbonica. Secondo una accreditata notizia storica, fu in una delle sale di questo palazzo ducale che l’Ammiraglio Francesco Caracciolo sarebbe stato arrestato, a seguito della delazione prezzolata di un servo del Duca Giuseppe Maria Pescara. Questi lo aveva accolto con cordialità, promettendogli protezione e discrezione, anche perché l’Ammiraglio era legato a lui da parentela, in quanto figlio di Donna Vittoria Pescara.
[3] La tela del pittore napoletano Raffaello Tancredi è riprodotta in bianco e nero, a corredo del libro di Don Giacomo Di Maria “Francesco Di Biondo – Calvizzanese – Sacerdote e poeta del ‘600”, edito a Napoli nel 1978. La Tavola VII reca l’immagine fuori testo della cattura. Che il quadro avesse rispondenza storica puntuale ci viene confermato da alcune circostanze puntuali. Infatti, esso fu esposto alla Terza Mostra Nazionale di Milano, nel 1872, ed acquistato per disposizione del primo Re dell’Italia Unita Vittorio Emanuele II e fatto collocare a Villa Mirafiori a Roma, poco lontano dalla celebre Porta Pia. Il particolare conferma che l’Ammiraglio Francesco Caracciolo fu presto ascritto nel novero degli eroi che avevano lottato per quegli ideali che portarono a realizzare compiutamente il Risorgimento, Meridionale, prima, e Nazionale, poi.
[4] L’umiliazione non riguardò solo la drammatica esecuzione, bensì anche i momenti successivi alla cattura: l’Ammiraglio fu infatti legato alla cavalcatura di un asino e, in tali condizioni, raggiunse Napoli, fra gli scherni e il ludibrio del popolino, che sa essere crudele verso un potente caduto in disgrazia. Da ciò si può capire che la “gogna mediatica” non è un’invenzione moderna, dal momento che, cambiati gli strumenti, non muta il risentimento in caso di perdita di potere. “Quicumque amisit dignitatem pristinam, / ignavis etiam iocus est in casu gravi” , direbbe Fedro (Fabulae I, XXI), vale a dire che “Chi ha perduto l’antico prestigio / diventa lo zimbello persino dei codardi, quando la rovina si è abbattuta su di lui”.
[5] Non è un caso che uno dei lungomari più belli d’Italia (e non solo!) rechi ancor’oggi il suo nome: infatti, la familiare “Via Caracciolo” che tutti i napoletani conoscono, in effetti, è dedicata, per esteso, all’Ammiraglio Francesco Caracciolo. Anche Calvizzano, nel suo piccolo, ha voluto onorarne la memoria, dedicando a lui il “largo” antistante l’attuale Casa Comunale, a conferma della notizia storica che vorrebbe l’Ammiraglio arrestato proprio nel Palazzo Ducale, posto dirimpetto a tale edificio. Questo anche in risposta indiretta e quale smentita ad una voce che vorrebbe che l’Eroe della Rivoluzione Partenopea del 1799 avesse fatto in tempo ad allontanarsi da Calvizzano, rifugiandosi a Giugliano in Campania, ma che fosse stato comunque raggiunto, riconosciuto e “bloccato” in Via Casacelle.
[6] Dal “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, di Vincenzo Cuoco, edizione a cura di F. Nicolini, Bari, 1913, pagina 86 e seguenti.
[7] Nel suo “Misogallo” (1798).
[8] Per meglio comprendere quale perdita umana e di valore culturale si sia avuto in quella strage di personaggi di primo piano, basterà citare le ultime parole pronunciate il 20 agosto 1799 dalla poetessa Eleonora Pimentel Fonseca, al momento dell’esecuzione capitale. Nell’offrire il capo al boia, ella ripeté in italiano le parole che Virgilio aveva fatto pronunciare ad Enea nel I libro dell’Eneide (al verso 203): “E forse un giorno gioverà ricordare tutto questo”. La frase è tanto più significativa, se si pensa che quella originale latina (“Forsan et haec olim meminisse iuvabit”) era stata proferita per rincuorare i compagni che si vedevano in difficoltà estrema. A tale affermazione, con l’insensibilità del ruolo che stava svolgendo in quel momento, l’esecutore materiale della sentenza di morte, del quale ci è stato tramandato perfino il nome, Mastro Donato, disse sprezzante ad alta voce, affinché tutti sentissero: “Chesta è Eleonora Pimmentella, una volta marchesa e adesso rea di Stato”. Questo episodio della vita della poetessa è ricordato in un’interessante biografia su di lei, scritta da una docente della Sorbona, l’Università di Parigi, Maria Antonietta Macciocchi, dall’eloquente titolo “Cara Eleonora”, che, a giudizio dell’estensore di queste pagine, ha reso plasticamente il divario esistente tra la raffinatissima letterata e “patriota napoletana” e i “lazzari” che assistevano all’esecuzione, ai quali il boia si era rivolto: a conferma, purtroppo, che quella era stata una “rivoluzione passiva”, subita e non sostenuta, delle masse popolari.
[9] Dote che avrebbe avuto, in tutt’altro contesto storico regionale e politico-militare, Camillo Benso Conte di Cavour, che seppe sfruttare le opportune contingenze createsi subito dopo la metà del XIX secolo, per realizzare l’Unità nazionale intorno alla monarchia dei Savoia.
[10] Non mi sembra assolutamente peregrina l’idea che mi è tornata alla memoria, nel compilare queste note, di andare a rileggere una terzina dantesca che sembrerebbe essere stata scritta “ad hoc”, sebbene parecchi secoli prima, per situazioni simili a quelle qui prese in esame: di fronte alla sconfitta di una prospettiva politica e di rinnovamento profondo “La colpa seguirà la parte offensa / in grido, come suol; ma la vendetta / fia testimonio al ver che la dispensa” (Dante, Paradiso XVII, 52-54) – [“L’infamia verrà addossata ed attribuita dai più, come di solito accade, alla fazione uscita sconfitta; ma la punizione dei colpevoli, che in seguito avverrà, sarà testimonianza della verità divina, che la infligge”].
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